Suicidio assistito, l’ossimoro dell’Ordine dei medici

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I medici che aiutano i pazienti a suicidarsi, nelle condizioni stabilite dalla Consulta, non saranno più puniti nemmeno a livello disciplinare. Lo ha deciso la Fnomceo approvando i nuovi indirizzi dell’art. 17 del Codice deontologico. Eppure lo stesso articolo proibisce (sempre) gli «atti finalizzati a provocare la morte». Una contraddizione che ricalca quella dei giudici costituzionali.

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L’enciclopedia Treccani definisce la parola “ossimoro” nel modo seguente: «Figura retorica che consiste nell’unione sintattica di due termini contraddittori».
Anche due giudizi possono trovarsi in contraddizione. Ad esempio se io giuro che non aiuterò mai nessuno a morire e nello stesso tempo mi dichiaro disponibile ad aiutare qualcuno a morire, il principio di non contraddizione va in tilt.

È ciò che ha compiuto il Consiglio nazionale della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo) il 6 febbraio scorso, quando ha approvato all’unanimità (sono ben 106 i presidenti degli ordini territoriali che siedono nel Consiglio nazionale) gli indirizzi applicativi dell’art. 17 del Codice di deontologia.
Tali indirizzi prevedono che il medico, il quale abbia aiutato un paziente a morire, non dovrà essere punito dal punto di vista disciplinare se ricorrono le condizioni di non sanzionabilità penale previste dalla Corte Costituzionale.

Questo il testo degli indirizzi applicativi: «La libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (sentenza 242/19 della Corte Costituzionale e relative procedure), va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare».

Se questi sono gli indirizzi applicativi dell’art. 17 del Codice di deontologia, ci saremmo aspettati che i principi presenti nello stesso art. 17 indicassero la liceità deontologica di aiutare un paziente a morire.
Invece l’art. 17, il cui titolo è “Atti finalizzati a provocare la morte”, afferma esattamente il contrario: «Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte». Come può essere che l’art. 17 vieti una pratica permessa invece dagli indirizzi che dovrebbero applicare nel concreto i principi indicati da quello stesso articolo? Rimane un mistero.
Gli indirizzi applicativi non entrano in rotta di collisione con l’art. 17, bensì anche con il giuramento presente nello stesso Codice deontologico, il quale così recita ad un certo punto: «Manterrò il massimo rispetto della vita umana».

Nonostante queste evidentissime contraddizioni il presidente della Fnomceo, Filippo Anelli, è riuscito a dire: «Restano fermi i principi dell’articolo 17, secondo i quali il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte». È la quadratura del cerchio, è affermare che Tizio è alto e basso allo stesso tempo.

Anelli cerca di salvarsi puntualizzando che il principio generale rimane fermo – vietato aiutare a togliersi la vita – però vi sono eccezioni, in analogia a quanto indicato dalla Corte Costituzionale: il reato di aiuto al suicidio rimane valido, però vi sono delle condotte non punibili.
Così Anelli per esteso: «Abbiamo scelto di allineare anche la punibilità disciplinare a quella penale in modo da lasciare libertà ai colleghi di agire secondo la legge e la loro coscienza. Restano fermi i principi dell’articolo 17, secondo i quali il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte. E ciò in analogia con quanto disposto dalla Corte, che, al di fuori dell’area delimitata, ha ribadito che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio “non è, di per sé, in contrasto con la Costituzione ma è giustificata da esigenze di tutela del diritto alla vita, specie delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento intende proteggere evitando interferenze esterne in una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio”».

In effetti ha ragione Anelli: la decisione contraddittoria presa dalla Fnomceo riflette nella sua contraddittorietà quella presa dalla Consulta la quale afferma che la vita va tutelata e al contempo dà semaforo verde al suicidio assistito.

E quindi cosa succederà, nel concreto e dal punto di vista disciplinare, al medico che ha aiutato un paziente a suicidarsi? Risponde sempre il presidente della Fnomceo: «I Consigli di disciplina saranno chiamati a valutare ogni caso nello specifico, per accertare che ricorrano tutte le condizioni previste dalla sentenza della Corte Costituzionale. Se così sarà, il medico non sarà punibile dal punto di vista disciplinare. In questo modo abbiamo voluto tutelare la libertà di coscienza del medico, il principio di autodeterminazione del paziente e, nel contempo, l’autonomia degli Ordini territoriali nei procedimenti disciplinari, correlandoli con la perfetta aderenza ai dettami costituzionali».

Due brevi appunti: la libertà di coscienza deve essere tutelata solo se la coscienza è orientata a fare il bene, altrimenti si finisce per tutelare la volontà di compiere il male. E aiutare qualcuno ad uccidersi è una condotta moralmente riprovevole.
Secondo: l’autodeterminazione del paziente, dal punto di vista morale, non può spingersi fino alla scelta di togliersi la vita. Non tutte le nostre scelte, anche se prese consapevolmente, devono essere tutelate, ma, come detto prima, solo quelle volte al bene.

Infine vogliamo mettere l’accento su un interrogativo: dopo la pronuncia della Consulta, la Fnomceo era obbligata a pronunciarsi per la non sanzionabilità disciplinare del medico che ha aiutato un paziente a togliersi la vita? La risposta è negativa sul piano morale, positiva sul piano giuridico. Spieghiamone i motivi.

Il medico, dal punto di vista morale, ha il dovere di non aiutare nessuno a togliersi la vita. Giusto quindi sotto l’angolatura disciplinare sanzionare il medico che non ha rispettato questo dovere. Perciò la Fnomceo doveva mantenere la disciplina sanzionatoria in questi casi.

Passiamo ora al versante giuridico. L’aiuto che il medico presta al paziente che vuole morire, dopo l’intervento della Consulta, configura sia un diritto in capo al medico, sia un dovere.
È un diritto perché viene inserito nella legge 219 e quindi questa scelta configura una pretesa giuridicamente tutelata, non è una mera facoltà di fatto non sanzionabile penalmente.
Diventa un’espressione del munus del medico tutelata dall’ordinamento giuridico perché necessaria – e qui sta il punto – per soddisfare il diritto del paziente di togliersi la vita: è giuridicamente funzionale a tale scopo.

Non solo l’aiuto al suicidio prestato dal medico è un diritto, ma è anche un dovere. Infatti, dato che la volontà di suicidarsi entrerà nella legge 219, tale volontà – al pari delle altre volontà tese alla richiesta di morire – verrà qualificata come diritto, anzi: è già cosi qualificata dalla Consulta.

Ora, se è un diritto, il suo esercizio non può conoscere limiti. Un limite potrebbe essere quello posto dal rifiuto del medico di accondiscendere alle richieste del paziente di essere aiutato a morire. La Consulta esplicitamente aveva scritto che il medico non deve essere obbligato ad aiutare il paziente a morire.
Però, come avevamo osservato qualche mese fa, allorché il diritto all’aiuto al suicidio confluirà nella legge 219 il medico non potrà più obiettare. Infatti, se già oggi il medico, ex lege 219, non può ad esempio obiettare alla richiesta del paziente di sedarlo e staccargli la ventilazione assistita al fine di farlo morire, perché potrebbe obiettare nei confronti di un paziente che chiede di essere aiutato a morire porgendogli un bicchiere d’acqua e una pillola letale? Sarebbe contraddittorio.

Dunque, anche di fronte al suicidio assistito l’obiezione di coscienza cadrà. Ergo, l’aiuto del medico a favore del paziente suicida non solo configura un diritto, ma, a breve, anche un dovere. Insomma – ed è questa la conclusione saliente – se è un diritto non si vede perché la Fnomceo dovrebbe punire l’esercizio di un diritto e, a maggior ragione, se è un dovere sarebbe irragionevole che dei privati sanzionino una condotta giuridicamente obbligatoria.

E quindi ripetiamo la domanda posta poc’anzi: la Fnomceo non poteva che procedere alla non sanzionabilità del medico in questi casi? No, doveva mantenere la sanzionabilità perché la prospettiva morale prevale su quella giuridica.
Ciò a dire che, se l’aiuto al suicidio è moralmente illecito, è doverosa, rebus sic stantibus, la sua sanzionabilità anche in sede disciplinare, nonostante i medici siano costretti giuridicamente ad aiutare i pazienti a morire (di ciò ovviamente si dovrebbe tenere conto in sede di giudizio disciplinare per calibrare la giusta sanzione).
Questo avrebbe portato a sicure vertenze giudiziarie a danno della Fnomceo promosse da quei medici obbligati ad aiutare i pazienti a morire? Certo, ma questo è lo scotto necessario per essere fedeli al principio espresso proprio dalla Fnomceo, e già prima ricordato, che così recita: «Manterrò il massimo rispetto della vita umana».

Nella situazione odierna sarebbe stato dunque doveroso da parte della Fnomceo opporsi alla deriva eutanasica voluta dalla Consulta affermando a chiare lettere: se voi giudici venite meno al dovere di punire gli attentati alla vita umana, noi non lo faremo. Costi quel che costi.

 

Tommaso Scandroglio, per la https://www.lanuovabq.it/it/suicidio-assistito-lossimoro-dellordine-dei-medici

 

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