Accademici contro il “transgender diktat”

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È oggi ancora possibile fare una seria ed onesta ricerca scientifica sul tema del cosiddetto transgenderismo? È quanto si sono chiesti in una lettera aperta, pubblicata sul quotidiano inglese The Guardian, più di 50 studiosi appartenenti a diverse università del Regno Unito, degli Stati Uniti, dell’Australia e altrove, in cui i firmatari denunciano il clima di «omertà» e di tabù ideologico che si è venuto a creare attorno alla tematica “transgender”.

L’odierno «gender diktat» all’insegna del politically correct, imposto dalla potente lobby Lgbt, costituisce infatti, secondo gli studiosi – facenti peraltro parte di un gruppo di oltre un centinaio di accademici –, un enorme ostacolo alle effettive possibilità e capacità di ricercare e riportare le proprie scoperte scientifiche nell’alveo di quella che, in ambito medico, viene definita «disforia di genere» o disturbo dell’identità di genere.

Basta bavagli!

Nell’incipit della loro lettera, gli studiosi, evidenziano come la loro critica abbia una connotazione multidisciplinare, precisando l’eterogeneità delle loro materie di studio: «Le nostre aree tematiche comprendono: sociologia, filosofia, diritto, criminologia, politica basata sull’evidenza, medicina, psicologia, educazione, storia, inglese, lavoro sociale, informatica, scienze cognitive, antropologia, scienze politiche, economia e storia dell’arte».

Il gruppo di firmatari dell’appello anti-bavaglio gender sottolinea come molti di loro, a causa del proprio sostegno scientifico a tesi accademiche “scomode”, fuori dall’unanime coro ideologico, abbiano subito veri e propri attacchi e minacce, oltre a censure e tentativi di licenziamento: «Siamo preoccupati per la soppressione di un’adeguata analisi accademica e discussione del fenomeno sociale del transgenderismo e delle sue molteplici cause ed effetti. I membri del nostro gruppo hanno subito proteste nei campus, richieste di licenziamento da parte della stampa, molestie, complotti sventati per provocare licenziamenti, no-platforming e tentativi di censurare la ricerca e le pubblicazioni accademiche. Tali attacchi non sono in linea con la ricezione ordinaria di idee critiche nell’accademia, dove è normalmente accettato che il disaccordo sia ragionevole e persino produttivo».

Oltre a ciò, gli studiosi “dissidenti” dichiarano come gran parte delle università siano oggi infiltrate, se non del tutto in mano, a gruppi di potere Lgbt, che, oltre ad influenzare ed orientare le politiche di studio universitarie, mirano a formare una nuova classe dirigente accademica, perfettamente allineata e prona al nuovo diktat etico in fatto di sessualità, con buona pace della libertà di ricerca: «Molte delle nostre università hanno stretti legami con organizzazioni Lgbt, che forniscono “formazione” di accademici e dirigenti e che, è ragionevole supporre, influenzano la politica universitaria attraverso questi collegamenti. Le definizioni utilizzate da tali organizzazioni per quanto venga giudicato “transfobico” possono essere pericolosamente onnicomprensive e andare ben oltre ciò che una norma ragionevole possa descrivere. Il loro effetto è quello di ridurre la libertà accademica e facilitare, di fatto, la censura».

Per questo i firmatari concludono la loro lettera, esortando il governo inglese a prendere immediate contromisure per garantire il rispetto dei più elementari principi di libertà di ricerca scientifica:
«Riteniamo che non sia transfobico indagare e analizzare quest’area da una serie di prospettive accademiche critiche. Riteniamo che questa ricerca sia assolutamente necessaria e esortiamo il governo a prendere l’iniziativa nella protezione di tali ricerche dall’attacco ideologico».

Transgenderismo sdoganato

Ma come si è potuti arrivare a tanto? Lo sdoganamento “scientifico” del transgenderismo, recentemente certificato dal manuale International Classification of Diseases dell’Oms-Organizzazione Mondiale della Sanità (ma che l’anno prossimo verrà sottoposto all’approvazione e all’adozione da tutti i Paesi), purtroppo, è solo l’ultimo tassello di un processo di normalizzazione della devianza sessuale, che ha origini ormai remote: nel 1973, l’Apa-American Psychiatric Association, su pressioni delle agguerrite organizzazioni Lgbt, decise di eliminare l’omosessualità dal Dsm-Manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali.

Fino al 1973, la prevenzione dell’omosessualità era, infatti, una prassi consolidata e universalmente accettata in ambito scientifico, dal momento che essa era considerata una patologia, una condizione negativa da evitare e per questo, ove possibile, si cercava in ogni modo di intervenire.

Eppure, la decisione di derubricare l’omosessualità dal Dsm fu tutt’altro che scientifica.
Essa avvenne, infatti, non al termine di approfonditi e condivisi studi e ricerche in ambito medico-psichiatrico, bensì al culmine di una furiosa campagna ideologica, fortemente influenzata dal clima rivoluzionario di quegli anni, frutto di una logorante attività persecutoria messa in atto dal nascente movimento Lgbt nei confronti degli psichiatri, che si opponevano a tale provvedimento.

Ronald Bayer, psichiatra e testimone dei fatti, raccontò così le circostanze in cui fu assunta la decisione: «L’Apa è stata vittima dei disordini di un’epoca tumultuosa, quando conflitti destabilizzanti minacciavano di politicizzare ogni aspetto della vita sociale americana. Un egualitarismo furioso che metteva in discussione ogni argomento, portato avanti d’autorità, aveva spinto gli esperti in psichiatria a negoziare lo stato patologico dell’omosessualità con gli stessi omosessuali. Il risultato raggiunto non è stato una conclusione basata su un’approssimazione di verità scientifiche dettate dalla ragione, ma un’azione di carattere ideologico dettata dai tempi».

Un clima di terrore

Sempre Bayer dichiarò: «È bene ricordare che, alla fine, solo un terzo degli aventi diritto votò la proposta di cambiamento e che l’emendamento passò non in base a evidenze di natura scientifica, ma solo per chiudere la campagna di terrore portata avanti dagli attivisti gay».

Un vero e proprio clima di terrorismo psicologico, confermato anche dal noto psichiatra Irving Bieber (1909-1991), che così commentò la votazione del 1973: «Non si può davvero sostenere che la nuova posizione ufficiale riguardo l’omosessualità sia una vittoriadella scienza. Non è ragionevole votare su questioni scientifiche come se si trattasse di mettere ai voti se la terra sia piatta o rotonda».

 Il risultato di tale decisione è stato dunque quello di paralizzare la ricerca e le terapie sull’omosessualità, scoraggiando gli stessi ricercatori dall’intraprendere studi su un tema divenuto improvvisamente intoccabile e fuori moda. Tutt’oggi, l’Apa è nota per la sua posizione apertamente a sostegno delle istanze Lgbt e le sue idee in materia non si fondano su dati scientifici quanto su motivazioni meramente ideologiche. Nello spazio di pochi decenni si è passati, così, da una seria ed onesta attività di prevenzione, ad una promozione ideologica e sfrenata dell’omosessualità e di ogni devianza sessuale.

Il prossimo tassello di tale folle ed ideologico processo rivoluzionario sarà l’accettazione e normalizzazione sociale della pedofilia?

 

di Rodolfo de Mattei, per Radici cristiane n°139

 

Abstract: Nel 1973 l’Apa-American Psychiatric Association, su pressioni delle agguerrite organizzazioni Lgbt, decise di eliminare l’omosessualità dal Dsm-Manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali.
Fino a quel momento, la prevenzione dell’omosessualità era una prassi consolidata e universalmente accettata in ambito scientifico, dal momento che essa era considerata una patologia.
Da quell’anno, invece, tutto mutò, non a seguito di approfonditi studi in ambito medico-psichiatrico, bensì al culmine di una furiosa campagna ideologica, frutto di una logorante attività persecutoria messa in atto dal nascente movimento Lgbt nei confronti degli psichiatri, che si opponevano a tale provvedimento.
Ecco come è davvero andata…

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