Parla il giudice Giacomo Rocchi, del Comitato verità e Vita.
Sebbene l’iter per l’approvazione sia stato sospeso a causa del coronavirus, la proposta di legge Zan è la priorità del Govverno PD-5stelle per questa legislatura:
«L’altra faccia della libertà assoluta è il totalitarismo. Dovremo stare attenti a protestare nelle scuole, accettare certi libri di testo, le donne tacere se incontreranno uomini negli spogliatoi femminili delle palestre, non permetterci di fare cenno alle terapie riparative e altro».
1. Per valutare il progetto di legge Zan e altri, presentato alla Camera dei Deputati, occorre dapprima comprendere i reali obiettivi dei proponenti: la Relazione alla proposta si concentra sugli atti di violenza nei confronti delle persone omosessuali e transessuali, che sarebbero “in esponenziale aumento nel numero e nella gravità”; ma, subito dopo, collega tali azioni alle “discriminazioni per motivi di orientamento sessuale e identità di genere”.
Ecco: l’obiettivo è la lotta alla discriminazione, sul presupposto (indimostrato) che essa porti inevitabilmente alla violenza (per inciso: nella relazione al progetto Scalfarotto, si dà atto che “non ci sono i numeri e la possibilità di monitorare il fenomeno” e che l’ ”OSCAD istituito dalle forze di polizia si è dichiarato non in grado di tenere una contabilità delle aggressioni, dei pestaggi e delle violenze”).
Meglio: come vedremo al termine, l’obiettivo effettivo è impedire la diffusione delle idee e la libertà di manifestazione del pensiero.
Leggiamo due norme penali (non sono le uniche) che diverrebbero operative se la proposta di legge fosse approvata:
– “(…) è punito con la reclusione fino ad un anno e sei mesi e con la multa fino a 6.000 euro chi istiga (per un’altra proposta sarebbe sufficiente una condotta di “incitamento”) a commettere o commette atti di discriminazione (…) fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”;
– “E’ vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione (…) per motivi (…) fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. Chi partecipa o presta assistenza è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni sono puniti con la reclusione da uno a sei anni”.
In altre proposte il riferimento all’orientamento sessuale e all’identità di genere varia: la proposta Boldrini e Speranza combatte la discriminazione motivata dall’ “identità sessuale della vittima” (concetto così descritto: “l’insieme, l’interazione o ciascuna delle seguenti componenti: sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere e orientamento sessuale”); la proposta Scalfarotto ed altri, le condotte “fondate sull’omofobia o sulla transfobia”; per la proposta Bartolozzi sarebbe sufficiente punire la discriminazione determinata da “motivi di genere”.
2. Cosa si intende per “discriminazione”? Se “discriminare” significa discernere, distinguere, differenziare, all’interno di un gruppo o una società, costituisce discriminazione l’assunzione di atteggiamenti, comportamenti o provvedimenti che isolano o danneggiano una parte. L’accezione negativa del concetto di discriminazione presuppone, ovviamente, una valutazione di uguaglianza tra il soggetto o il gruppo discriminato e gli altri soggetti: quindi, la differenziazione deve risultare ingiustificata.
Facciamo due esempi. Il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna definisce discriminatori gli atti “che possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso”, ma fa salva la presenza di “requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa” (art. 25); in particolare, per l’accesso al lavoro, vieta qualsiasi discriminazione mediante il riferimento allo stato matrimoniale o di gravidanza o con l’indicazione come requisito professionale dell’appartenenza ad un determinato sesso, ma ammette deroghe “per mansioni di lavoro particolarmente pesanti” ed esclude la discriminazione quando l’assunzione viene condizionata ad un determinato sesso “in attività della moda, dell’arte o dello spettacolo, quando ciò sia essenziale alla natura del lavoro o della prestazione” (art. 27).
La legge, quindi, pur partendo dall’uguaglianza tra uomo e donna (l’art. 3 della Costituzione afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso), giustifica differenziazioni quando il sesso è essenziale (se devo organizzare una sfilata di moda femminile, devo essere libero di ingaggiare solo modelle donne): in questo caso non vi è discriminazione.
3. L’esempio più calzante è la sentenza della Corte Costituzionale n. 221 del 2019, che ha respinto le questioni di legittimità costituzionale della legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita, che impedisce alle coppie dello stesso sesso – maschili o femminili – di accedere alle tecniche e, quindi, di “generare” (sic!) e avere figli “propri” (la sentenza è complessa: la esaminiamo solo nell’ottica oggetto di questo scritto).
I Tribunali di Bolzano e di Pordenone sostenevano che permettere l’accesso alle tecniche soltanto alle coppie di sesso diverso violerebbe l’art. 3 della Costituzione, perché “determinerebbe una disparità di trattamento fra i cittadini in ragione del loro orientamento sessuale”; la norma “costituirebbe una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale”, violando le convenzioni internazionali che vietano la discriminazione, anche dei disabili (la coppia omosessuale sarebbe affetta da una “disabilità riproduttiva”).
La Corte (così come aveva fatto la CEDU nel 2012) nega che l’infertilità della coppia omosessuale sia omologabile a quella della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive: “si tratta di fenomeni chiaramente e ontologicamente distinti”. Di conseguenza, “l’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne (il ragionamento vale anche per le coppie omosessuali maschili) non è fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale”.
La motivazione prosegue sulla stessa linea, giustificando la differenza di trattamento: il fatto che a coppie omosessuali vengano affidati dei bambini e che addirittura venga loro riconosciuta la possibilità di adozione in casi particolari non incide sulla possibilità di accedere alla PMA: “vi è, infatti, una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando … la PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza ad una coppia (o ad un singolo)”; non si può invocare la tutela costituzionale della maternità “che riguarda la maternità e non l’aspirazione a diventare genitore”; non possono essere evocati nemmeno il diritto alla salute o la tutela della disabilità perché, mentre “la presenza di patologie riproduttive è un dato significativo nell’ambito di una coppia eterosessuale, in quanto va venire meno la normale fertilità di tale coppia … la coppia omosessuale sarebbe infertile in ogni caso”; nemmeno la tutela della vita familiare (sul presupposto che la coppia omosessuale costituisca una famiglia) rileva, “stante la non equiparabilità delle rispettive situazioni”.
4. I due esempi ci fanno comprendere che la punizione penale che i proponenti vorrebbero introdurre per tutti coloro che “compiono atti di discriminazione fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere” presuppone come dato acquisito e che non può essere messo in discussione che qualsiasi differenza di trattamento, in qualunque ambito nei confronti delle persone omosessuali o transessuali sia ingiustificata e, quindi, illecita: in un solo colpo, si vorrebbe stabilire un divieto e prevedere la relativa sanzione.
In effetti, ad oggi è previsto solo un divieto di discriminazione sul lavoro a causa dell’orientamento sessuale (decreto legislativo 216 del 2003, privo di una sanzione penale).
Questo non avviene affatto per le ipotesi di discriminazione già punite dall’art. 604 bis cod. pen. (la norma che il progetto intende integrare con il riferimento all’orientamento sessuale e all’identità di genere), cioè quelle “per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” (così come non avviene per le discriminazioni per motivi attinenti al sesso): per esse esistono norme che definiscono e delimitano le discriminazioni, prima fra tutte la Convenzione di New York del 1966 sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, recepita nel nostro ordinamento dalla legge 654 del 1975 (“Nella presente Convenzione, l’espressione “discriminazione razziale” sta ad indicare ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica”).
Quindi, la norma penale sanziona condotte già descritte e vietate.
Non basta: le norme che vietano quelle discriminazioni hanno la loro legittimazione nell’articolo 3 della Costituzione che, pur riconoscendo “pari dignità sociale a tutti i cittadini”, afferma che tutti sono eguali davanti alla legge “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
L’elencazione consente, quindi, trattamenti diversi – purché giustificati – motivati su basi differenti da quelle elencate: come abbiamo visto, la Corte Costituzionale ritiene giustificate differenze di trattamento assai rilevanti giustificate dall’orientamento sessuale, negando che esse costituiscano “discriminazione”.
5. Posso rifiutare l’assunzione di una baby-sitter transessuale o rifiutarmi di preparare una torta per la celebrazione di un’unione civile di due persone omosessuali?
È lecito non ammettere nei seminari uomini con tendenze omosessuali?
Le scuole private cattoliche possono negare l’assunzione di maestre o maestri che risultano attivisti LGBT?
I Comuni o i titolari di palestre possono vietare l’ingresso ai bagni e agli spogliatoi femminili degli uomini che hanno “identità di genere” femminile (l’identità di genere sarebbe “la percezione che una persona ha di sé come uomo o donna anche se non corrispondente al proprio sesso biologico”)?
Si può vietare agli atleti maschi transessuali di partecipare alle competizioni sportive femminili?
Un’associazione scoutistica può stabilire di non affidare la responsabilità di Reparti o Branchi a persone che hanno un “ruolo di genere” variabile?
I genitori possono rifiutare per i loro figli attività extracurriculari gestite dalle associazioni LGBT?
E soprattutto: è lecito vietare alle coppie omosessuali di sposarsi in un vero e proprio matrimonio? È giusto affidare loro bambini o permetterne l’adozione?
La proposta Zan pretende di dare un taglio netto a tutti questi (e molti altri) interrogativi: no, sono discriminazioni e, se ti permetti di farle, vai in carcere.
6. Ma la proposta va ben oltre: non solo ogni differenza di trattamento dovrebbe essere punita penalmente, ma non si dovrebbe nemmeno parlare di queste differenze – tutte divenute per legge discriminazioni – né, tanto meno, sostenerne la necessità o l’opportunità; si tratterebbe, infatti, di “istigazione alla discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”. Analogamente sarebbero vietate le associazioni o i gruppi che avessero come uno degli scopi (non l’unico né il principale) il trattamento differente di omosessuali e transessuali.
Vorrei sottolineare un aspetto: l’obiettivo dei proponenti, più di incarcerare le persone, è di intimidire e minacciare e, quindi, ottenere il silenzio sulle questioni.
La paura della denuncia – la necessità di nominare un avvocato, i riti dell’interrogatorio ecc. – per molte persone è già sufficiente.
Leggiamo un passo della proposta Scalfarotto: si sostiene che la norma non punirebbe “mere opinioni, quand’anche esse esprimano un pregiudizio” ma, subito dopo, si afferma: “La differenza tra mero pregiudizio e una reale discriminazione dipenderà ovviamente dalle condizioni di tempo e di luogo con le quali si manifesterà il messaggio, dalle modalità di estrinsecazione del pensiero, da precedenti condotte dell’autore e così via, in modo da verificare se il fatto si possa ritenere realmente offensivo del bene giuridico protetto”.
Cosa significa? Le denunce fioccheranno, i procedimenti penali saranno avviati, poi i giudici archivieranno o assolveranno gli autori di certe dichiarazioni ma, nel frattempo, questi avranno dovuto difendersi, sborsare denaro, contrastare richieste risarcitorie e così via.
E sui gruppi e le associazioni? Sapete che una sentenza della Cassazione del 2013 ha ritenuto integrare un’associazione per delinquere (che in quel caso incitava alla discriminazione razziale) una “struttura” che utilizzava un blog per tenere i contatti tra gli aderenti, fare proselitismo, diffondere testi, programmare azioni dimostrative e raccogliere elargizioni?
7. Ecco l’altra faccia della libertà assoluta, dello stravolgimento della realtà naturale: il totalitarismo. Dovremo stare attenti a protestare per quello che avviene nelle scuole ai nostri figli, accettare certi libri di testo, le donne tacere se incontreranno uomini negli spogliatoi femminili delle palestre, non permetterci di fare accenno alle terapie riparative, fare attenzione ad opporci alla transizione di genere di nostro figlio o di nostra figlia, rinunciare a sostenere che l’unica famiglia è quella naturale e che i bambini hanno bisogno di un padre e di una madre …
Secondo la relazione, il progetto sarebbe in linea con “una visione più moderna e inclusiva della società, nel tentativo di realizzare quella pari dignità che la Costituzione riconosce a ciascuna persona”. I proponenti sembrano dimenticare il costante insegnamento della Corte Costituzionale: la libertà di manifestazione del pensiero è pietra angolare dell’ordine democratico» (sentenza n. 84 del 1969), «cardine di democrazia nell’ordinamento generale» (sentenza n. 126 del 1985), «coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione» (sentenza n. 11 del 1968); «la libertà di manifestazione del pensiero, anche e soprattutto in forma collettiva, assume una rilevanza centrale ai fini dell’attuazione del principio democratico».
Non possiamo credere che il Parlamento di una Repubblica democratica (art. 1 della Costituzione) arrivi ad approvare queste proposte.
Giacomo Rocchi, per https://lanuovabq.it/it/omofobia-legge-contro-democrazia-e-costituzione