di Roberto Marchesini
Perché le coppie si separano? Un tempo ero convinto che le coppie si separassero perché litigavano. L’aver lavorato a lungo con le coppie mi ha insegnato che mi sbagliavo: le coppie non si separano perché litigano; al massimo litigano perché si separano (per i figli, i soldi, la casa, l’auto…).
Questa mia osservazione è confermata da una ricerca (P. R. Amato e A. Booth, A Generation at Risk: Growing Up in an Era of Family Upheaval, Harvard University Press, Cambridge 1997) secondo la quale circa il 70% dei divorzi avvengono in famiglie a basso livello conflittuale (low-conflict) e solo il 25% in famiglie ad alto livello conflittuale (high-conflict).
E allora: perché le coppie si separano? In genere, perché le aspettative legate al matrimonio non si sono realizzate.
Molti si sposano per essere felici e dopo un po’, inevitabilmente, subentra la delusione.
Che c’è di male, nello sposarsi per essere felici? Non è per questo che ci si sposa? Veramente… no. Almeno, non è questo il matrimonio che propone la Chiesa. Se rileggiamo le promesse matrimoniali, spesso pronunciate in modo meccanico e superficiale durante la celebrazione, scopriamo che promettiamo di «essere fedele, amare e onorare». Tutti verbi che indicano la ricerca di felicità per l’altro, non per sé. Quinci non ci si sposa per essere felici, ma per fare felice l’altro.
Altri, invece, si sposano perché sono innamorati. Lo si vede nei film: il matrimonio è il culmine dell’innamoramento. Vorrei solo aggiungere che, di solito, i film non mostrano cosa accade dopo, quando l’innamoramento è finito. E non lo mostrano perché non finisce bene e i film, si sa, devono avere il lieto fine. Cos’è l’innamoramento? Innanzitutto, è un sentimento e, come tutti i sentimenti, è passeggero. Secondariamente, è un sentimento di benessere, beatitudine: si sorride sempre, si è al settimo cielo. Qual è il problema? Il problema sta nel confondere l’innamoramento con l’amore. Amare significa volere il bene dell’altro. Quindi, innanzitutto, non è un sentimento, ma una decisione, un moto della ragione («volere» il bene dell’altro, non «sentire»…). Secondariamente, l’amore è il bene dell’altro, l’innamoramento è il bene mio. E torniamo al punto precedente.
Se stiamo con un altro perché ci fa stare bene è un guaio, perché prima o poi non lo farà più. Diventerà noioso, scocciatore, pretenzioso. E cominceremo a pensare che è qualcun altro, che può farci stare bene. Se invece decidiamo di dedicarci al bene dell’altro, ogni giorno potremo fare qualcosa per l’altro; e non ci sarà pericolo che l’amore (essendo una decisione) finisca.
Queste osservazioni non sono fantasie dello psicologo cattolico. Sono, ad esempio, condivise dal sociologo Morali-Daninos (André Morali-Daninos, Storia delle relazioni sessuali, Lucarini, Roma 1988, pp. 76-77):
[…] si è assistito, in questo modo, a una vera e propria rivoluzione sessuale che si verifica ancora oggi, sotto i nostri occhi. Questa rivoluzione sembra essere stata guidata da due principi: il diritto all’amore e il diritto alla felicità nell’amore. Il primo di questi principi pone l’accento sull’importanza irrinunciabile dell’attrazione reciproca e ha avuto come conseguenza un indebolimento dei legami familiari e sociali. Il secondo principio implica la contingenza dell’unione in se stessa, poiché, se ci si sbaglia nella scelta del compagno, si può, anzi si deve ricominciare con un altro, donde il moltiplicarsi di divorzi, delle unioni libere e anche la necessità di valutare con più attenzione il momento opportuno per la nascita dei figli e per la creazione di una famiglia che potrebbe rischiare, domani, di non avere più una ragione d’essere.
Nonché dallo psicologo Willi (Jurg Willi, Che cosa tiene insieme le coppie, Mondadori, Milano 1992, pp. 5 e 11):
Negli Stati Uniti, ancor più marcatamente che nei paesi di lingua tedesca, sussiste quasi l’obbligo di separarsi nel caso in cui, in un rapporto di coppia, la soddisfazione emotiva non sia adeguatamente garantita. […] Molte volte, infine, i rapporti di coppia sono destinati a fallire sin dall’inizio proprio a causa delle eccessive pretese di felicità.
Cos’è accaduto? Come mai la soddisfazione personale è considerata oggi tanto importante; e perché il matrimonio viene fondato un un fugace e passeggero sentimento? Prendiamola alla larga…
Questa visione del matrimonio è il frutto della modernità, ossia di cinquecento anni di rivolta contro l’ordine provvidenziale stabilito dal creatore. Ovviamente ogni processo è frutto di un complesso di cause, ma possiamo comunque fare ordine.
Quello che chiamiamo solitamente rinascimento (la rinascita della civiltà dopo il buio medioevo) è, in realtà, il crepuscolo della civiltà cristiana. Non un’alba, ma un crepuscolo. Così descrive quel passaggio lo storico Johan Huizinga (1872-1945):
[…] noi abbiamo cercato di vedere nei secoli quattordicesimo e quindicesimo non già gli albori del Rinascimento, ma il tramonto del Medioevo, quello che è stata, nel suo ultimo periodo di vita, la civiltà medioevale, fatta ormai simile ad un albero completamente sviluppato e carico di frutti troppo maturi. Si descrive in queste pagine come il nucleo vitale del pensiero dovette soggiacere a concezioni nuove e prepotenti e come una civiltà ricca e rigogliosa fu condannata all’aridità e all’irrigidimento. Scrivendole, il nostro sguardo era rivolto alla profondità di un cielo serale, un cielo rosso di sangue, pesante di livide oscurità e pieno di una falsa luce di rame.
Quel cielo rosso sangue, livido e ramato, era l’alba della modernità che ha dissolto anche la concezione cristiana del matrimonio e l’ha reso un tragico giocattolo.
È in quei secoli che la ribellione contro il Logos prende una forma istituzionale, comanda, governa. Porta nei palazzi il paganesimo, l’amore per le passioni, l’alchimia e la magia. L’oscurità si siede sul trono della luce. La legge naturale (che prende la forma delle leggi morali e religiose) non viene più considerata una guida, un modello al quale adattare il governo; bensì un inutile fardello, che vieta la vita lieta, il guadagno facile, la gioia, pur se efgfimera. Quale sovrano medievale avrebbe potuto scrivere dei versi come «Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza» (versi di una poesia intitolata, significativamente, «Il trionfo di Bacco [cioè Dioniso] e Arianna»)? Come sarebbe a dire «di doman non c’è certezza»? E il domani eterno?
Il trionfo di Bacco e Arianna è il trionfo delle passioni su Apollo, sulla ragione. Se il modello precedente era la biga alata di Platone, nel quale i due cavalli (le passioni) trainano la biga, ma è l’auriga (la ragione) a guidarli; ora l’uomo è un carro trascinato dalle passioni, senza auriga o con un auriga mutilato, che non riesce più a guidare la biga. Perché un modo per giustificare il dominio delle passioni sull’uomo è quello di mutilare la ragione, dicendo per esempio che essa può cogliere solo cose materiali: le realtà metafisiche (non solo Dio, gli angeli e tutte le realtà spirituali; ma anche l’ordine del creato, che è retto dalla legge naturale) non si vedono, non si toccano, non si misurano. Quindi non esistono o, se esistono, non hanno alcuna influenza sulla vita dell’uomo (ecco la nascita del teismo, del mito del Grande Architetto dell’Universo). Questa è, in sostanza, la filosofia di Hobbes (1588-1679), che per primo, dichiarò che la ragione non può cogliere concetti metafisici quali le leggi morali e religiose, che egli chiamò «idola» (feticci, invenzioni, falsità). Nacque così l’empirismo inglese, la prima filosofia compiuta della modernità; il cui scopo era giustificare l’adulterio plurimo di un sovrano che aveva smesso di seguire la ragione e si era fatto dominare dalle passioni. Per sviluppare la filosofia di Hobbes fu fondata la Royal Society, della quale fecero parte Netwon, Darwin e tanti altri idoli della modernità; tutti accomunati dal rifiuto delle leggi morali e religiose. Ma cosa succede se eliminiamo le leggi morali e religiose? Che, nel mondo dell’«homo homini lupus», il più debole è in balia del più forte. Ecco, quindi, il ritorno della schiavitù, del colonialismo, l’eugenetica, l’aborto e la schiavitù sessuale della donna (che, nel «bispensiero moderno», si chiama «liberazione sessuale»).
Poi accadde che un avvocatucolo scansafatiche e attaccabrighe, per evitare dei guai che la sua sciocca irriverenza gli aveva procurato, dovette fuggire da Parigi e rifugiarsi a Londra (che, allora, era l’approdo di tutti gli scappati di casa). Lì frequentò Locke e Newton, insomma: gli ambienti della Royal Society. Quando tornò a Parigi portò con sé un quadernetto di appunti, che chiamò Lettere inglesi o Lettere filosofiche, e prese lo pseudonimo di Voltaire: era nato l’illuminismo, ossia l’empirismo in salsa francese. Anche per gli illuministi, infatti, la ragione può cogliere solamente ciò che colpisce i sensi; e le realtà metafisiche (comprese le leggi morali e religiose), gli «idola» degli empiristi, divengono così «superstizioni». Ma come, dirà qualcuno: l’illuminismo non è l’esaltazione della ragione? Bispensiero, bispensiero. L’esaltazione della ragione è in realtà la sua focomelizzazione, ossia il rifiuto della sua più alta facoltà: la comprensione delle realtà metafisiche.
Se la ragione non è in grado di guidare l’uomo (ricordiamo il mito della biga alata…), chi prenderà il comando? Le passioni? Ecco, quindi, il romanticismo: non tanto l’antitesi dell’illuminismo, ma la sua diretta conseguenza.
Anche qui qualcuno obietterà: a scuola mi hanno insegnato che il romanticismo è una «reazione» all’illuminismo. Dall’esaltazione (falsa, come abbiamo visto) della ragione si passa, per reazione, all’esaltazione delle passioni. No, non è così. Il romanticismo è l’illuminismo che torna in Inghilterra, dopo aver fatto danni in Francia. Mary Wallstonecraft fu inviata in Francia a scrivere della rivoluzione inviata dai circoli rivoluzionari inglesi. E fu sua figlia Mary (come la mamma), a dare origine al romanticismo; e alla letteratura horror.
Siamo nel luglio 1816 a villa Diodati, sul lago di Ginevra.
Qui si incontrano due amici, lord George Gordon Byron e Percy Bysshe Shelley. Il primo è accompagnato dal medico/segretario/amante John William Polidori; il secondo dalla sedicenne Mary e dalla di lei sorellastra Claire. Mary era figlia di Mary Wallstonecraft, considerata la prima femminista.
Tutti letterati, portarono con loro pochi libri, tra i quali Fantasmagoriana, una raccolta di storie gotiche; e Gli illuminati di Baviera, dell’abate Barruel. Questo secondo libro doveva servire da ispirazione e modello per la costituzione di una società segreta – modellata su quella degli Illuminati – che aveva un obiettivo tanto ambizioso quanto terribile: rovesciare la classica gerarchia antropologica, che vedeva la ragione come vertice e capo dell’essere umano, mettendo al posto di comando le passioni, in particolare il desiderio sessuale.
I cinque, infatti, passarono il loro tempo a villa Diodati consumando rapporti sessuali di ogni genere, pur essendo sia Byron che Shelley sposati, e Mary e Claire sorellastre.
Questa fu, a tutti gli effetti, la prima Rivoluzione Sessuale, ossia la prima volta in cui si teorizzò la rottura delle norme morali e religiose che regolavano la sessualità umana come mezzo per ribellarsi contro il Logos.
Le conseguenze di questo episodio furono diverse.
Innanzitutto, in quell’occasione nacquero sia la letteratura horror che quella romantica. Videro infatti la luce Frankenstein, scritto da Mary ispirandosi all’amante Shelley; e Il Vampiro, che Polidori scrisse ritraendo nel mostro il partner Byron. Da questo momento, horror e sesso rivoluzionario furono legati inscindibilmente.
I due poeti, tuttavia, furono anche gli artefici della nascita del romanticismo. Come ebbe a dire Joris-Karl Huysmans, ex romantico convertitosi al cattolicesimo, il tema della letteratura romantica (quindi di tutto l’Ottocento) è uno solo: l’adulterio. In poche parole, questo genere letterario riguarda lo scontro tra le norme morali e religiose riguardanti il matrimonio e la sessualità, e la sfrenata passione sessuale; ovviamente, il lieto fine consiste nella vittoria della seconda sulle prime. Il marito cornuto, il cattivo del racconto, è destinato a soccombere di fronte alla potenza della passione adulterina. Anche se pochi ci fanno caso – immersi come siamo nelle conseguenze di questa strategia rivoluzionaria – questo topos influenzò non solo la poesia e la letteratura, ma la musica, la pittura e il cinema del Novecento. E, ovviamente, l’idea del matrimonio stesso, visto come mera convenzione sociale destinato a soccombere di fronte all’innamoramento.
A questa prima, tragica Rivoluzione Sessuale, seguì quella che tutti conosciamo e che accompagnò il cosiddetto Sessantotto. Anche in quel caso ci fu una rottura netta e totale delle norme morali e religiose che riguardano il sesso. E, anche in quel caso, le passioni (quella sessuale in particolare) divennero la facoltà più importante dell’uomo. Il Sessantotto, infatti, ebbe tra le varie conseguenze quella di rompere con un matrimonio come patto di significato sociale, come dedizione reciproca degli sposi, e divenne mera fonte di soddisfazione personale.
L’altra grande idea rivoluzionaria che ebbe delle enormi conseguenze sul concetto generale di matrimonio fu l’idea che il fine della vita dell’uomo non sia il sacrificio di sé per il bene degli altri, come insegna il Vangelo; e nemmeno il bene comune. Bensì il proprio personale tornaconto.
Anche in questo caso, abbiamo un luogo e una data precisi: Londra, 1714.
Sono il luogo e la data della pubblicazione della novella di Bernard Mandeville intitolata La favola delle api: vizi privati, pubbliche virtù. In questa favola si narra di un alveare che va in rovina perché le api lavorano indefessamente per il bene comune; mentre, se avessero perseguito il loro interesse mettendo all’opera tutti i vizi, l’alveare avrebbe prosperato. Perché, secondo un dogma liberale, la ricerca del proprio interesse porta – in modo misterioso, involontario ed indiretto – la prosperità dell’intera società. Le conseguenze sul matrimonio di questo dogma sono sotto gli occhi di tutti: il motivo per cui ci si sposa non è più «dare la vita per le persone che si amano» (Gv 15, 13), bensì «la ricerca della [propria] felicità». Tuttavia, poiché la felicità è delectatio in felicitate alterius (rallegrarsi della felicità altrui), chi si sposa per questo motivo è condannato all’infelicità. E quindi a cercarla compulsivamente in altre relazioni (magari attraverso nuovi strumenti, come le app), sperando che la prossima sia quella buona.
Come si vede, la fragilità attuale dell’istituzione matrimoniale è semplicemente il frutto maturo della modernità. L’abbandono della legge naturale non può produrre altro che odio e infelicità. Se vogliamo un matrimonio felice e duraturo, rifiutiamo la modernità e torniamo al Logos, convertiamoci all’amore che ha dato ordine, senso e fine a tutto il creato. E, come il Logos incarnato ci ha insegnato, diamo la vita per amore ai nostri amici. Cioè facciamo del matrimonio il nostro Golgota quotidiano. La ricompensa sarà immensa. Non c’è, invece, nessuna ricompensa per chi volta le spalle al Logos.
Roberto Marchesini